Mauritania:
E poi arriva il giorno della prima "vera" dogana. Se quella all'ingresso in Marocco è stata una
formalità, quella tra Marocco e Mauritania è una scissione. Passarla segna una
svolta, si esce da un paese che insegue l'occidente e si entra in un altro che,
a tratti, sembra evitarlo.
Arriviamo alla dogana marocchina, ci sono 3 guardie
armate: una in divisa blu, una in verde e una in grigio, oltre a loro qualche
ufficio, una tenda berbera e un'auto che ci precede è tutto ciò che vediamo.
L'auto deve essere arrivata già da molto tempo; ha tutte le porte aperte, baule
e cofano compresi. I gendarmi la stanno perquisendo. Passiamo la frontiera
marocchina in poco tempo, ci avviciniamo a quella mauritana. Attraversiamo in
pochi minuti la cosidetta "terra di nessuno", giusto il tempo di
appoggiare nella sabbia la yamaha e siamo davanti alla porta mauritana.
Il
paesaggio naturale non cambia, il paesaggio umano è stravolto: le uniformi sono
sostituite da tuniche blu e turbanti, l'atteggiamento burocrate è sostituito da
modi paramilitari, e i miliziani hanno occhiali da sole che rendono irriconoscibili
i volti.
Entriamo in un ufficio. Ci accolgono un mitra appoggiato al muro e un uomo con i piedi nudi sulla scrivania, intento a riportare su un quadernone a quadretti i dati delle persone che passano il confine. Gli consegniamo i nostri passaporti quando improvvisamente entrano 2 militari sudati ed esagitati che con aria trafelata richiamano la sua attenzione. Si alza di scatto, corre fuori dalla porta. Non capiamo cosa stia succedendo nemmeno nel momento in cui, affacciandoci dall'uscio, vediamo una decina di uomini armati di pietre e bastoni gridare in direzione delle nostre moto parcheggiate. Ci si raggela il sangue.
Entriamo in un ufficio. Ci accolgono un mitra appoggiato al muro e un uomo con i piedi nudi sulla scrivania, intento a riportare su un quadernone a quadretti i dati delle persone che passano il confine. Gli consegniamo i nostri passaporti quando improvvisamente entrano 2 militari sudati ed esagitati che con aria trafelata richiamano la sua attenzione. Si alza di scatto, corre fuori dalla porta. Non capiamo cosa stia succedendo nemmeno nel momento in cui, affacciandoci dall'uscio, vediamo una decina di uomini armati di pietre e bastoni gridare in direzione delle nostre moto parcheggiate. Ci si raggela il sangue.
Solo dopo qualche
secondo un serpente striscia da sotto le nostre moto in direzione di un'auto
parcheggiata, e la sassaiola, interrotta esclusivamente per evitare i nostri
mezzi, riprende immediatamente.
Il rettile spira.
Noi respiriamo.
Riprendiamo il
tragitto verso Noadibou. Affianchiamo il treno più lungo del mondo. 260 vagoni
e un chilometro e mezzo di lunghezza. Ha con sé l'unica risorsa che
l'entroterra è in grado di regalare, il ferro, e lo trasporta fino alla costa
da dove partirà per tutto il mondo.
La Mauritania è una
Repubblica Islamica, ciò vuol dire che l'Islam è la religione dello stato, che
il capo dello stato è musulmano e che la libertà di religione è limitata. Noi
andiamo adagio.
Prima di entrare in
città ci ferma una pattuglia, "è per il vostro bene" ci dice il
militare. Gli crediamo.
Un problema alla
moto di Marco ci costringe ad una riparazione notturna di emergenza: la ventola
del motore non raffredda più e con un piccolo intervento riusciamo a renderla
azionabile manualmente con i cavi.
Il giorno seguente ci rendiamo conto di aver fatto un errore enorme, non abbiamo cambiato la moneta in frontiera per la fretta, ed ora ci ritroviamo senza soldi. Le due banche presenti in città non riconoscono i circuiti internazionali e nemmeno l'albergo accetta le nostre carte di credito. Solo 3 ore dopo, grazie a Luis, pescatore ristoratore spagnolo, riusciremo ad uscire dall'impasse cambiando degli euro residui.
Ripartiamo con il
vento di lato che allunga la sabbia sull'asfalto e che ci obbliga a restare
piegati per ore ed ore. Ci fermiamo per fare rifornimento, dall'ultimo
benzinaio sono passati 250 km.
Dietro di noi c'è una jeep con un dromedario legato sul cassone posteriore. Urla, strepita e scalcia mentre 4 uomini stringono le corde che lo tengono seduto.
Dietro di noi c'è una jeep con un dromedario legato sul cassone posteriore. Urla, strepita e scalcia mentre 4 uomini stringono le corde che lo tengono seduto.
Riprendiamo la strada. Fa caldo, ci
fermiamo a fare una foto e la yamaha non riparte immediatamente, forse per il
carburante (non esiste benzina verde). Facciamo l'unica cosa che possiamo fare,
scendiamo dalla moto e ci fermiamo all'ombra. Non ci spostiamo di molto, siamo
sotto uno dei tanti cartelli di pericolo. Il territorio è disseminato di mine e
non è consigliabile allontanarsi dal manto stradale.
La moto riparte e
dopo diversi chilometri incontriamo un italiano che sta tornando dal Senegal.
Parliamo con lui 5 minuti e ci ripete solo una cosa, "non passate da
Rosso, non passate Rosso, non passate da Rosso". Sembra parecchio
spaventato.
In serata siamo a
Nouakchott. Non si direbbe essere la capitale, le strade sono le stesse, fatte
di terra, di polvere, di buche e di bambini.
Il giorno seguente è
quello fatidico della frontiera con il Senegal.
Abbiamo dormito male
per il caldo e le zanzare, c'è un problema con un visto senegalese perchè la
conferma via email dell'accettazione non è arrivata, per cui, in effetti,
abbiamo solo due visti.
Vorremmo passare da
Djama, che a quanto dicono è un passaggio facilitato rispetto a quello di
Rosso, ma alcuni locali ce lo sconsigliano perché senza visto non ci farebbero
passare. In più il problema alla ventola dell'LC8 di Marco si è ripresentato, e
il tratto di strada sterrata che ci divide da Djama potrebbe essere troppo
caldo per affrontarlo senza raffreddamento. Insomma non abbiamo scelta.
Passiamo da Rosso.
Abbiamo un contatto,
un doganiere che lavora sul lato senegalese del fiume Senegal e che ci manderà
"in qualche modo" un suo incaricato per sbrigare le pratiche sul lato
mauritano. Ci armiamo di
pazienza e ci avviciniamo alla frontiera, veniamo affiancati da un'auto, ci
ferma e scendono 4 senegalesi. Uno di loro è il nostro passepartout.
Arriviamo alle porte di Rosso. Un piccolo agglomerato di capanne con un via vai di intermediari, faccendieri e tutto fare. Riusciamo a liberarci della infinita burocrazia mauritana, fatta di timbri, di doganieri assopiti sui banconi degli uffici, di attese e di code. 2 ore e saliamo sulla chiatta. Passiamo in Senegal. Non perdiamo la calma e altre 2 ore dopo siamo liberi. In mezzo c'è un doganiere serissimo che ci scansiona la retina dell'occhio, un caldo umido da togliere il fiato, e un ragazzo che sniffa colla sdraiato di fianco alle nostre moto.
Il fiume Senegal
divide due mondi: in questo, dove siamo ora, c'è frutta sulle bancarelle ai
lati della strada, ci sono donne con abiti coloratissimi e cesti poggiati sulle
teste, ci sono scimmie che attraversano la strada, e per la seconda volta ci
sentiamo nel posto giusto al momento giusto, con un tramonto che scende tra i
baobab, e gli aironi che ci sorvolano i caschi.
Siamo a S. Louis,
prima capitale del Senegal, coloniale e vitale. Un pò Cuba, un pò New Orleans,
anche se in realtà, considerando la storia degli uomini e della schiavitù,
sarebbe più giusto dire il contrario.
Partiamo
presto. E' il giorno di Dakar.
Ci godiamo il
paesaggio, ci fermiamo a comprare frutta e veniamo investiti dalle attenzioni
dei bambini.
Ci ritroviamo spesso a raccontare, a fare foto, a parlare con uomini senegalesi che parlano italiano e l'impressione è sempre di estrema ospitalità.
Ci ritroviamo spesso a raccontare, a fare foto, a parlare con uomini senegalesi che parlano italiano e l'impressione è sempre di estrema ospitalità.
Dopo pochi
chilometri incrociamo un poliziotto. Lo guardiamo negli occhi e ancora prima di
scendere dalle moto sappiamo cosa vuole. Ce lo diciamo attraverso gli
interphono "vuole i soldi".
Si negozia, questa
volta non senza un accenno di resistenza da parte nostra. Si mette i soldi in
tasca e ci dà anche il resto.
Non è un trionfo,
non ci sembra di essere arrivati ad un traguardo, anzi! Siamo nel mezzo di un
ciclopico ingorgo stradale che inizia 20 chilometri prima del nostro albergo e
che dura 3 ore. Percorriamo un corso largo, ma non abbastanza da contenere
tutti: SUV, carretti trainati da muli, capre che brucano e mezzi in contromano.
Ci destreggiamo, ma siamo stanchi, procediamo con Marco in testa che detta le
soste per permettere alla sua moto di raffreddarsi, io in mezzo, sprovvisto
dell'interphono perchè scarico e Masi dietro che con GPS e roadbook comunica a
Marco la strada da seguire.
Improvvisamente uno dei tanti restringimenti, mi trovo tra un bus e un'auto. Il tutto dura un attimo, un colpo secco dalla parte del bus, la moto per terra, la ruota del bus che si appoggia a quella anteriore della moto sdraiata, un centimetro prima di farla scoppiare. La gente accorre, le auto che schivano la moto e gli autisti coinvolti nell'incidente sono già spariti. Marco è lontano, Masi mi aiuta a raddrizzare il manubrio e ad accostare fuori dal flusso impazzito. Un gendarme fischia a caso, spariscono tutti.
Improvvisamente uno dei tanti restringimenti, mi trovo tra un bus e un'auto. Il tutto dura un attimo, un colpo secco dalla parte del bus, la moto per terra, la ruota del bus che si appoggia a quella anteriore della moto sdraiata, un centimetro prima di farla scoppiare. La gente accorre, le auto che schivano la moto e gli autisti coinvolti nell'incidente sono già spariti. Marco è lontano, Masi mi aiuta a raddrizzare il manubrio e ad accostare fuori dal flusso impazzito. Un gendarme fischia a caso, spariscono tutti.
Siamo cotti. Ci sono
40 gradi umidi come in una palude, i gas di scarico ci lasciano addosso una
patina oleosa e l'odore dell'aria è irrespirabile. La moto ha tenuto, ma una
valigia laterale è scoppiata per il colpo e dobbiamo legarla con una cinghia di
fortuna. Le ultime due ore sono una prova di resistenza. Pensiamo solo ad una
cosa, limitare i danni, e arrivare a quel benedetto albergo.
Dakar:
Avevamo preso un
impegno prima della partenza: venire a conoscere personalmente qui a Dakar i
referenti del CPAS (comitato Pavia Asti Senegal), una ONG che opera sul territorio senegalese e
che abbiamo conosciuto mesi prima in Piemonte. Volevamo creare un ponte per far
conoscere le loro attività attraverso il nostro viaggio. Ma prima abbiamo due
inconvenienti da risolvere, il
primo riguarda la ventola di raffreddamento, e il secondo la valigia
schiacciata nell’incidente. Ci affidiamo a Demba, istrionico portavoce della
ONG e perfetto Cicerone in grado di muoversi con disinvoltura nel labirinto
della Sua Dakar.
Prendiamo un taxi e comprendiamo definitivamente cosa voglia
dire traffico congestionato. Una guida “spavalda” del tassista ci permette di
muoverci velocemente e appuriamo essere prassi diffusa usare gli spigoli dei
veicoli per farsi strada. Demba si muove, perfettamente a suo agio, tra i vicoli
della città così come nei rapporti umani e ci permette di sistemare in breve
tempo sia la ventola sia la valigia.
Ora possiamo
dedicarci all’intervista con Malamine Tamba referente del CPAS e dell’Ufficio
Nazionale per i Diritti Umani dell’ONU di Dakar.
L’incontro è una
piacevole chiacchierata in cui Il dott. Tamba ci racconta le attività
dell’associazione e la realtà in cui opera.
In un’ora entriamo
in contatto con il suo profondo senso di appartenenza culturale e ne restiamo
affascinati.
Siamo soddisfatti e
dopo aver salutato il Malamine abbiamo il tempo per una breve visita alla
città.
Dakar è un’enorme
bazar, una moltitudine umana che si muove ed esercita qualunque tipo di
attività, la maggiorparte delle quali legate al commercio. Si vende si baratta
e si compra di tutto, dappertutto; radio usate, scarpe spaiate, pesce, karitè, pneumatici
e noccioline abbrustolite. Tutto
qui può avere una seconda vita, compresa una ventola di una moto e una scatola
di alluminio rotta – per fortuna –