venerdì 31 gennaio 2014

TORINO-DAKAR A/R - Memorie di viaggio #2


Mauritania:

E poi arriva il giorno della prima "vera" dogana. Se quella all'ingresso in Marocco è stata una formalità, quella tra Marocco e Mauritania è una scissione. Passarla segna una svolta, si esce da un paese che insegue l'occidente e si entra in un altro che, a tratti, sembra evitarlo. 

Arriviamo alla dogana marocchina, ci sono 3 guardie armate: una in divisa blu, una in verde e una in grigio, oltre a loro qualche ufficio, una tenda berbera e un'auto che ci precede è tutto ciò che vediamo. L'auto deve essere arrivata già da molto tempo; ha tutte le porte aperte, baule e cofano compresi. I gendarmi la stanno perquisendo. Passiamo la frontiera marocchina in poco tempo, ci avviciniamo a quella mauritana. Attraversiamo in pochi minuti la cosidetta "terra di nessuno", giusto il tempo di appoggiare nella sabbia la yamaha e siamo davanti alla porta mauritana. 






Il paesaggio naturale non cambia, il paesaggio umano è stravolto: le uniformi sono sostituite da tuniche blu e turbanti, l'atteggiamento burocrate è sostituito da modi paramilitari, e i miliziani hanno occhiali da sole che rendono irriconoscibili i volti. 


Entriamo in un ufficio. Ci accolgono un mitra appoggiato al muro e un uomo con i piedi nudi sulla scrivania, intento a riportare su un quadernone a quadretti i dati delle persone che passano il confine. Gli consegniamo i nostri passaporti quando improvvisamente entrano 2 militari sudati ed esagitati che con aria trafelata richiamano la sua attenzione. Si alza di scatto, corre fuori dalla porta. Non capiamo cosa stia succedendo nemmeno nel momento in cui, affacciandoci dall'uscio, vediamo una decina di uomini armati di pietre e bastoni gridare in direzione delle nostre moto parcheggiate. Ci si raggela il sangue.
Solo dopo qualche secondo un serpente striscia da sotto le nostre moto in direzione di un'auto parcheggiata, e la sassaiola, interrotta esclusivamente per evitare i nostri mezzi, riprende immediatamente.
Il rettile spira. Noi respiriamo.


Riprendiamo il tragitto verso Noadibou. Affianchiamo il treno più lungo del mondo. 260 vagoni e un chilometro e mezzo di lunghezza. Ha con sé l'unica risorsa che l'entroterra è in grado di regalare, il ferro, e lo trasporta fino alla costa da dove partirà per tutto il mondo.



La Mauritania è una Repubblica Islamica, ciò vuol dire che l'Islam è la religione dello stato, che il capo dello stato è musulmano e che la libertà di religione è limitata. Noi andiamo adagio.



Prima di entrare in città ci ferma una pattuglia, "è per il vostro bene" ci dice il militare. Gli crediamo.
Un problema alla moto di Marco ci costringe ad una riparazione notturna di emergenza: la ventola del motore non raffredda più e con un piccolo intervento riusciamo a renderla azionabile manualmente con i cavi.



Il giorno seguente ci rendiamo conto di aver fatto un errore enorme, non abbiamo cambiato la moneta in frontiera per la fretta, ed ora ci ritroviamo senza soldi. Le due banche presenti in città non riconoscono i circuiti internazionali e nemmeno l'albergo accetta le nostre carte di credito. Solo 3 ore dopo, grazie a Luis, pescatore ristoratore spagnolo, riusciremo ad uscire dall'impasse cambiando degli euro residui.



Ripartiamo con il vento di lato che allunga la sabbia sull'asfalto e che ci obbliga a restare piegati per ore ed ore. Ci fermiamo per fare rifornimento, dall'ultimo benzinaio sono passati 250 km. 



Dietro di noi c'è una jeep con un dromedario legato sul cassone posteriore. Urla, strepita e scalcia mentre 4 uomini stringono le corde che lo tengono seduto. 



Riprendiamo la strada. Fa caldo, ci fermiamo a fare una foto e la yamaha non riparte immediatamente, forse per il carburante (non esiste benzina verde). Facciamo l'unica cosa che possiamo fare, scendiamo dalla moto e ci fermiamo all'ombra. Non ci spostiamo di molto, siamo sotto uno dei tanti cartelli di pericolo. Il territorio è disseminato di mine e non è consigliabile allontanarsi dal manto stradale. 





Due o tre minuti dopo si avvicina un anziano proveniente da un gruppo di capanne, ci chiede  se abbiamo bisogno di qualcosa e ci dice che finché staremo lì nella sua terra, saremo suoi ospite e verremo trattati come membri della sua famiglia.
La moto riparte e dopo diversi chilometri incontriamo un italiano che sta tornando dal Senegal. Parliamo con lui 5 minuti e ci ripete solo una cosa, "non passate da Rosso, non passate Rosso, non passate da Rosso". Sembra parecchio spaventato.
In serata siamo a Nouakchott. Non si direbbe essere la capitale, le strade sono le stesse, fatte di terra, di polvere, di buche e di bambini.












Senegal:

Il giorno seguente è quello fatidico della frontiera con il Senegal.
Abbiamo dormito male per il caldo e le zanzare, c'è un problema con un visto senegalese perchè la conferma via email dell'accettazione non è arrivata, per cui, in effetti, abbiamo solo due visti.
Vorremmo passare da Djama, che a quanto dicono è un passaggio facilitato rispetto a quello di Rosso, ma alcuni locali ce lo sconsigliano perché senza visto non ci farebbero passare. In più il problema alla ventola dell'LC8 di Marco si è ripresentato, e il tratto di strada sterrata che ci divide da Djama potrebbe essere troppo caldo per affrontarlo senza raffreddamento. Insomma non abbiamo scelta. Passiamo da Rosso.
Abbiamo un contatto, un doganiere che lavora sul lato senegalese del fiume Senegal e che ci manderà "in qualche modo" un suo incaricato per sbrigare le pratiche sul lato mauritano. Ci armiamo di pazienza e ci avviciniamo alla frontiera, veniamo affiancati da un'auto, ci ferma e scendono 4 senegalesi. Uno di loro è il nostro passepartout. 



Arriviamo alle porte di Rosso. Un piccolo agglomerato di capanne con un via vai di intermediari, faccendieri e tutto fare. Riusciamo a liberarci della infinita burocrazia mauritana, fatta di timbri, di doganieri assopiti sui banconi degli uffici, di attese e di code. 2 ore e saliamo sulla chiatta. Passiamo in Senegal. Non perdiamo la calma e altre 2 ore dopo siamo liberi. In mezzo c'è un doganiere serissimo che ci scansiona la retina dell'occhio, un caldo umido da togliere il fiato, e un ragazzo che sniffa colla sdraiato di fianco alle nostre moto.




Il fiume Senegal divide due mondi: in questo, dove siamo ora, c'è frutta sulle bancarelle ai lati della strada, ci sono donne con abiti coloratissimi e cesti poggiati sulle teste, ci sono scimmie che attraversano la strada, e per la seconda volta ci sentiamo nel posto giusto al momento giusto, con un tramonto che scende tra i baobab, e gli aironi che ci sorvolano i caschi.










Siamo a S. Louis, prima capitale del Senegal, coloniale e vitale. Un pò Cuba, un pò New Orleans, anche se in realtà, considerando la storia degli uomini e della schiavitù, sarebbe più giusto dire il contrario.






Partiamo presto.  E' il giorno di Dakar.
Ci godiamo il paesaggio, ci fermiamo a comprare frutta e veniamo investiti dalle attenzioni dei bambini.






Ci ritroviamo spesso a raccontare, a fare foto, a parlare con uomini senegalesi che parlano italiano e l'impressione è sempre di estrema ospitalità.
Dopo pochi chilometri incrociamo un poliziotto. Lo guardiamo negli occhi e ancora prima di scendere dalle moto sappiamo cosa vuole. Ce lo diciamo attraverso gli interphono "vuole i soldi".
Si negozia, questa volta non senza un accenno di resistenza da parte nostra. Si mette i soldi in tasca e ci dà anche il resto.



Arriviamo a Dakar.


Non è un trionfo, non ci sembra di essere arrivati ad un traguardo, anzi! Siamo nel mezzo di un ciclopico ingorgo stradale che inizia 20 chilometri prima del nostro albergo e che dura 3 ore. Percorriamo un corso largo, ma non abbastanza da contenere tutti: SUV, carretti trainati da muli, capre che brucano e mezzi in contromano. Ci destreggiamo, ma siamo stanchi, procediamo con Marco in testa che detta le soste per permettere alla sua moto di raffreddarsi, io in mezzo, sprovvisto dell'interphono perchè scarico e Masi dietro che con GPS e roadbook comunica a Marco la strada da seguire. 



Improvvisamente uno dei tanti restringimenti, mi trovo tra un bus e un'auto. Il tutto dura un attimo, un colpo secco dalla parte del bus, la moto per terra, la ruota del bus che si appoggia a quella anteriore della moto sdraiata, un centimetro prima di farla scoppiare. La gente accorre, le auto che schivano la moto e gli autisti coinvolti nell'incidente sono già spariti. Marco è lontano, Masi mi aiuta a raddrizzare il manubrio e ad accostare fuori dal flusso impazzito. Un gendarme fischia a caso, spariscono tutti.
Siamo cotti. Ci sono 40 gradi umidi come in una palude, i gas di scarico ci lasciano addosso una patina oleosa e l'odore dell'aria è irrespirabile. La moto ha tenuto, ma una valigia laterale è scoppiata per il colpo e dobbiamo legarla con una cinghia di fortuna. Le ultime due ore sono una prova di resistenza. Pensiamo solo ad una cosa, limitare i danni, e arrivare a quel benedetto albergo.













Dakar:

Avevamo preso un impegno prima della partenza: venire a conoscere personalmente qui a Dakar i referenti del CPAS (comitato Pavia Asti Senegal), una ONG  che opera sul territorio senegalese e che abbiamo conosciuto mesi prima in Piemonte. Volevamo creare un ponte per far conoscere le loro attività attraverso il nostro viaggio. Ma prima abbiamo due inconvenienti da risolvere,  il primo riguarda la ventola di raffreddamento, e il secondo la valigia schiacciata nell’incidente. Ci affidiamo a Demba, istrionico portavoce della ONG e perfetto Cicerone in grado di muoversi con disinvoltura nel labirinto della Sua Dakar. 
Prendiamo un taxi e comprendiamo definitivamente cosa voglia dire traffico congestionato. Una guida “spavalda” del tassista ci permette di muoverci velocemente e appuriamo essere prassi diffusa usare gli spigoli dei veicoli per farsi strada. Demba si muove, perfettamente a suo agio, tra i vicoli della città così come nei rapporti umani e ci permette di sistemare in breve tempo sia la ventola sia la valigia.   


Ora possiamo dedicarci all’intervista con Malamine Tamba referente del CPAS e dell’Ufficio Nazionale per i Diritti Umani dell’ONU di Dakar.
L’incontro è una piacevole chiacchierata in cui Il dott. Tamba ci racconta le attività dell’associazione e la realtà in cui opera.


In un’ora entriamo in contatto con il suo profondo senso di appartenenza culturale e ne restiamo affascinati.
Siamo soddisfatti e dopo aver salutato il Malamine abbiamo il tempo per una breve visita alla città.
Dakar è un’enorme bazar, una moltitudine umana che si muove ed esercita qualunque tipo di attività, la maggiorparte delle quali legate al commercio. Si vende si baratta e si compra di tutto, dappertutto; radio usate, scarpe spaiate, pesce, karitè, pneumatici e noccioline abbrustolite.  Tutto qui può avere una seconda vita, compresa una ventola di una moto e una scatola di alluminio rotta – per fortuna –
Moltissimi ragazzi fanno sport per strada, che sembra essere uno strumento di emancipazione e la criminalità non è così presente come in altre metropoli. Ci piace, ma il tempo è finito. Domani si riparte.


lunedì 27 gennaio 2014

TORINO-DAKAR A/R - Memorie di viaggio #1




Saliamo sulla nave.
Ci sono mille altre persone che su quella nave lasciano Genova alle loro spalle.
Ci sono onde ed onde, che confondono tutti, mescolano i sogni col vento e li portano, dopo 50 ore, fino a Tangeri.

E poi ci sono dei tramonti che rimettono tutto dove deve stare. Ecco, noi eravamo lì dove dovevamo stare il 3 novembre 2013.















Marocco:
 
Scendiamo, sbrighiamo le pratiche doganali, cambiamo la moneta e ci dirigiamo pochi chilometri a sud. Siamo ad Asilah. 3 italiani in Marocco in un B&B gestito da una donna inglese, che non parla francese, la cui figlia è fidanzata con uno spagnolo. Cominciamo con una barzelletta?
Il mattino presto iniziamo a scendere velocemente verso Sud.



Facciamo molta attenzione a non superare i 120 km/h, i controlli stradali sono ovunque, ma tutto considerato è una velocità di crociera soddisfacente, anche se non ci consente di comunicare attraverso gli interphono, troppo disturbati dal fruscio generato dal vento.

 

Fino ad Agadir l’autostrada ci regala poche suggestioni ma infiniti pedaggi. Sorpassiamo diversi furgoni già visti sulla nave, sono carovane strapiene di suppellettili e di vita, come se portassero pezzi di mondo da parte a parte.


I campi lasciano spazio ad eucalipti e serre, la temperatura sale dolcemente, gli strati invernali delle tute da moto trovano posto nelle valigie. L’attenzione per il paesaggio ci distrae dai km percorsi e la yamaha resta a secco, Masi e il suo LC8 diventano carro attrezzi spingendomi fino al primo distributore. 


Dopo Marrakech le montagne regalano lo spettacolo di millenni di sedimentazioni che creano linee ocra ripiegate su loro stesse.



Prima di partire avevamo preso un impegno: avremmo evitato di guidare al buio. Ci penso mentre i fari delle nostre moto per la seconda sera consecutiva fendono l'abisso che ci circonda.
L’autostrada finisce, e con lei anche il primo giorno di viaggio.

 

Ripartiamo da Agadir; il paesaggio si tinge di tutti i rossi riconoscibili, i paesi attraversati diventano sempre più piccoli e le strade sempre più godibili, troppo godibili, la prima multa, dietro espresso "suggerimento" del gendarme, viene negoziata. E’ importante imparare a conoscere gli usi locali.

 

Quando ti avvicini ad El Ayun gli eucalipti lasciano spazio alle acacie, le pecore ai dromedari e gli oued gonfi d’acqua a quelli in secca. I chilometri sono un unico rettilineo, inasprito dal sole del sahara e da un odore nauseante; si tratta di pozze di un nero raggrumato lasciate dai migliaia di camion che trasportano il pesce, e che non avendo refrigerazione lasciano il loro carico mortifero di ghiaccio sciolto e sangue.


Comincia a ripetersi il mantra dei posti di blocco e della distribuzione delle fiches di viaggio. Decine di controlli che iniziano nello stesso modo: “chi siete, da dove venite, dove andate, cosa trasportate…” Non siamo abbastanza audaci ed insolenti per rispondere come Troisi alle porte di Frittole. 


 Ma tant’è, quasi tutti sono estremamente seri e poco inclini ai convenevoli di benvenuto. Alcuni ci lasciano andare in pochi minuti, altri ci fanno aprire le valigie per ispezionarle. L’impressione è che sia la "luna" del momento a determinare la meticolosità dei controlli.

 
Ad El Ayun i primi contrafforti sabbiosi ci guidano fino all’albergo scelto per la notte. Albergo completo. L’ONU ha occupato tutto. 




L’area è presidiata da decine e decine di militari e funzionari delle Nazioni Unite. Il confine etereo con il Sahara Occidentale e i rifugiati del Mali rendono delicata la gestione di questo angolo di mondo. Con il secondo albergo ci va meglio. Trattiamo il prezzo della stanza. Al mattino la prima sorpresa è il messaggio del receptionist: “qualcuno nella notte si è avvicinato alle moto. Controllatele.”


Mancano i guanti invernali di Marco, un giubbotto ad alta visibilità, una penna. Cose di poco conto… o forse no?


Siamo nel Polisario. Nessuno stato lo riconosce, non è presente sulle carte geopolitiche, ma siamo lì.
La tappa fino a Dakhla è lunga.
Centri abitati sempre più rarefatti, temperatura sempre più calda, e la sensazione di spaesamento per la mancanza di punti di riferimento aumenta.
Una presenza importante comincia a farci compagnia, se ne sente l’odore a chilometri di distanza; è l’oceano, che da qui in poi diventerà un compagno costante, e che rappresenta l'unica fonte di sostentamento per gli accampamenti berberi posti lungo questo tratto di costa.



 
 

Facciamo decine e decine di chilometri al suo fianco, accompagnati solo da sabbia e vento, ogni tanto ci sporgiamo oltre il baratro delle scogliere e perdiamo lo sguardo tra le carcasse di navi presenti.
La sensazione è di essere soli in mezzo al nulla, fino a quando d’improvviso una figura umana si staglia nella polvere del deserto. Alle volte con un piccolo bagaglio, alle volte senza nulla, ma sempre con l’aria di essere qualcuno che arriva da molto, molto lontano.
I posti di blocco ora sono avamposti nel nulla, a pattugliare pietre e vento in attesa di qualcosa che non capiamo. Per noi è il deserto dei Tartari.


Improvvisamente, come un'apparizione, incontriamo una sagoma piegata su un manubrio, a pedalare sotto 40 gradi di fatica in mezzo ad un punto imprecisato del deserto. Si chiama Ryoo, è un ragazzo giapponese partito un anno prima dalla Norvegia e destinato ad arrivare a Capo di Buona Speranza con la sua bici. Ci sentiamo granelli di sabbia spazzati via dalla sua limpida perseveranza. Proviamo una spontanea gratitudine. Gli lasciamo il nostro pranzo, ma andiamo via da lì infinitamente più ricchi.


 

L'ultimo tratto prima di Dakhla è un tuffo su una spiaggia senza fine. Ci opponiamo ostinatamente al vento, mentre a qualche centinaio di metri da noi, una girandola di kite surf ci accoglie in una delle località più conosciute da questo sport.